Volt racconta come combattere per gli stessi valori ovunque mostri che non tutti i Paesi europei vanno allo stesso passo nel cammino verso la piena autodeterminazione dei corpi.
Che l’Italia sia fanalino di coda in Europa su molti temi che impattano la vita di cittadine e cittadini non è una novità. I diritti e le libertà, purtroppo, non fanno eccezione: troppo spesso nel nostro Paese leggi inique o, peggio ancora, mancanti provocano discriminazioni quotidiane o negano condizioni di vita degne a milioni di persone.
C’è però un tema in particolare che, troppo spesso, passa inosservato nonostante sia di fondamentale importanza, e che ultimamente è arrivato alla ribalta del dibattito pubblico: la libertà di scelta sul proprio corpo quando si parla di Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG) o di aborto in Italia. Un diritto, troppo spesso negato nonostante esista una legislazione chiara a riguardo.
Come attiviste e attivisti del capitolo italiano di Volt, partito paneuropeo, abbiamo deciso di studiare come differiscano le condizioni nei diversi Paesi che compongono l’Unione europea riguardo al diritto alla scelta e all’aborto. Da questo confronto, tentiamo di trarre conclusioni concrete per fare uscire l’Italia dall’arretratezza socio-culturale in cui è immersa.
Qual è la situazione in Europa?
Lo scorso 7 luglio il Parlamento europeo, in occasione della riunione in seduta plenaria a Strasburgo, si è espresso condannando il progressivo deterioramento del diritto alla salute e i diritti riproduttivi delle donne negli Stati Uniti. Le deputate e i deputati hanno chiesto che questo sia inserito nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Hanno infatti affermato che è necessario presentare al Consiglio una proposta di modifica dell’art. 7 della Carta per garantire liberà di scelta, depenalizzare l’aborto e migliorare i servizi assistenziali.

In Spagna, lo scorso aprile è stata approvata una modifica del Codice penale per cui saranno puniti gli “atti molesti, offensivi, intimidatori o coercitivi” perpetrati da persone “al fine di ostacolare l’esercizio del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza”. Le sanzioni, che vanno dalla reclusione da un minimo di tre mesi fino a 1 anno ai lavori di pubblica utilità, saranno applicate anche a coloro che tentano di ostacolare o intimidire il personale sanitario.
In Francia, da febbraio la durata legale dell’interruzione di gravidanza è aumentata da 12 a 14 settimane, e alle ostetriche, che finora avevano diritto solo ad effettuare aborti farmacologici, è stato concesso anche di praticare quelli chirurgici, in un tentativo di ampliare il numero di possibilità per le donne di usufruire di questo servizio, come loro diritto. Si è anche tentato di inserire l’aborto come diritto fondamentale nella costituzione dopo le elezioni legislative di aprile, ma la proposta non ha ancora raggiunto l’aula per il voto.
Non ci sono, però, solo esempi positivi: in alcuni Paesi, l’aborto è ancora un diritto per cui lottare e, anzi, lontano dall’essere raggiunto. Per esempio, la Polonia lo consente solo quando la vita o la salute della donna sono in grave ed accertato pericolo o la gravidanza è il risultato di una violenza sessuale. Invece, da aprile, questo non è concesso neppure nel caso di grave anomalia fetale.
Proprio dove occorre ancora lottare, l’attivismo si fa sentire. Come in Croazia, dove il nostro gruppo locale di Volt festeggia in questi giorni l’apertura della raccolta firme per indire un referendum costituzionale sul diritto all’aborto. Con il titolo “Dosta je!” (“Ne abbiamo abbastanza!”), Volt, insieme ai partiti d’opposizione SPD e Mozemo, si farà promotore ed ideatore della raccolta di 380 mila firme.
E l’Italia?
In Italia, invece, noi attiviste e attivisti per i diritti delle donne siamo spaventate e spaventati. Il 25 settembre, quando rinnoveremo il Parlamento nazionale, rischiamo di portare al governo forze politiche per le quali l’aborto non è un diritto e le persone non hanno libertà di scelta sul proprio corpo. Ed è proprio la situazione nei territori già adesso amministrati da queste forze politiche a metterci davanti agli occhi questo scenario.
Il partito di Giorgia Meloni, Fratelli D’Italia, dato dalle proiezioni come primo partito a livello nazionale, governa oggi le Marche, regione che non consente l’aborto farmacologico nei consultori. Questo riduce le opportunità di accesso al suddetto servizio, costringendo chi deve effettuare una IVG a ricorrere agli ospedali regionali. In questi ultimi, però, non è raro trovare medici obiettori di coscienza (circa il 70%): questo porta a doversi recare in regioni con amministrazioni differenti dove, magari, la somministrazione della RU486 (pillola abortiva) sia ancora consentita e facilitata.
Non è un caso isolato: in Abruzzo, regione sempre guidata da Fratelli d’Italia (con vicepresidente di Lega), risulta 1 sola ginecologa non obiettrice.
In Umbria, regione amministrata sia da Fratelli d’Italia che da Lega, a giugno 2020 una delibera ha impedito di abortire in day hospital con pillola abortiva, obbligando ad un ricovero di 3 giorni e contrastando apertamente le linee guida nazionali. Solo le proteste dell’opposizione e delle associazioni pro-choice hanno portato al ritiro dell’atto. Quando non è il sistema a proteggere la libertà di scelta, ma deve farlo la società civile, ci accorgiamo che c’è un problema.
Il Molise lo scorso anno si è trovato obbligato a rinviare il pensionamento dell’unico ginecologo non obiettore in tutta la regione. L’obiezione individuale è infatti possibile dal punto di vista legislativo, ma quella di intere strutture non permette di garantire il servizio alle donne nelle zone geografiche che dovrebbero servire.

In tutti gli altri ambiti, l’obiezione di coscienza riserva una limitazione o un obolo da pagare da parte dell’obiettore. Non in ambito ginecologico, però, dove, a uno sguardo superficiale, sembra proprio che chi non obietta sia invece vittima di un sistema premiale per chi si oppone ai propri doveri di medico. Questo non solo rappresenta una grave discriminazione e un pericolo per i diritti riproduttivi, ma crea anche un sistema lavorativo profondamente ingiusto, di fatto facendo pesare sulle spalle di chi non obietta – e quindi di chi è consapevole che una sua assenza potrebbe implicare una mancanza totale di personale che pratichi aborti – responsabilità insostenibili.
La politica dovrebbe puntare a migliorare l’impianto normativo perché non sia il sistema ad impedire o rendere difficoltoso l’accesso all’aborto. Nella pratica, infatti, la maggior parte del personale obiettore non lo è per ragioni etiche, ma perché viene inserito in un sistema in cui “conviene essere obiettori”: il personale non obiettore rappresenta una minoranza, sottoposta a un lavoro incredibilmente pesante e poco remunerativo e che è oltretutto esposta alla “pubblica gogna” da parte di altri colleghe e colleghi non favorevoli: ad oggi quindi se è possibile accedere all’interruzione volontaria di gravidanza lo dobbiamo a quelle poche persone che scelgono di mettere in secondo piano la loro carriera per difendere in prima persona i diritti riproduttivi.
Occorrerebbe quindi emanare linee guida nazionali che richiedano alle strutture sanitarie regionali di adeguarsi, favorendo un sistema omogeneo in cui il personale medico sia messo nelle condizioni adeguate di fornire un servizio senza che la propria carriera sia penalizzata e senza doversi sobbarcare di tutte le responsabilità.
Un sistema soprattutto in cui il diritto alla scelta e ad un aborto legale, gratuito e sicuro sia garantito. Si dovrebbero prevedere politiche di rafforzamento per il personale non obiettore dei Consultori Familiari e rendere questi ultimi strutture chiave per garantire e accelerare le procedure di IVG. Ciò garantirebbe supporto per i gruppi sociali più emarginati, come quelli più poveri o senza cittadinanza italiana, e per le minorenni.
La campagna elettorale attualmente in corso di certo non prospetta nulla di buono: la coalizione di centro destra oggi mette al centro la “famiglia tradizionale”, proponendo fondi ed esenzioni in una sola direzione: quella di continuare la gravidanza per la “difesa e promozione della cultura della vita”. Niente proposte riguardo i medici obiettori, nonostante si voglia rispettare la legge 194, secondo Fratelli D’Italia. Le premesse non sono delle migliori, diciamo, e la propaganda avrà vita corta.
Ma chi pagherà per tutto questo?
Le donne che vogliono terminare una gravidanza, che non potranno beneficiare di un servizio che è, prima di tutto, un loro diritto.
Ma anche l’Italia stessa, come Paese europeo, che finirebbe come troppo spesso accade in altri ambiti a fare da fanalino di coda rispetto alla media europea. E insieme all’Italia anche l’Europa, che guarda con preoccupazione a quelle regioni che minano il principio e il valore dell’uguaglianza, espresso nell’articolo 2 del Trattato di Maastricht.
Infine, pagheremo tutte e tutti noi. Perché quando libertà che dovrebbero essere scontate come la possibilità di decidere sul proprio corpo o principi così fondamentali come quello di autodeterminazione diventano dei “diritti” da salvaguardare, c’è di che temere anche per ogni altra forma di libertà.
Ma c’è anche un’Italia che non si arrende e che al netto di quello che succederà il 25 settembre si farà trovare pronta a lottare e immaginare un futuro diverso, in cui i diritti umani e civili siano la base di una società libera, giusta ed europea. È l’Italia della società civile, dei gruppi e delle campagne per strada come Libera di Abortire, che abbiamo supportato firmando l’appello e portandone le istanze nelle nostre proposte politiche.
Noi attiviste e attivisti di Volt abbiamo scelto da che parte stare e non faremo un passo indietro. Ne faremo invece tanti in avanti per recarci alle urne e fare una scelta consapevole ed informata, e ancora di più ne faremo insieme, città dopo città, finché saremo finalmente libere e liberi e i nostri diritti saranno davvero garantiti.
Silvia Panini
Giulia Pretini
Irene Gubbiotti
Sofia Giannotti
Claudia Vasselli
Ardita Osmani
Gianluca Guerra
Federico Amoruso