I governi di tutto il mondo non possono più rimandare le questioni relative alla sostenibilità dei loro sistemi di welfare. L’Italia sembra stare invece ignorando il problema, tra crisi demografica e scelte politiche poco lungimiranti. Eppure qualche soluzione c’è, e basterebbe aprire gli occhi in Europa.
Silvia Panini, membro del Consiglio Direttivo di Volt Italia
Lo squilibrio intergenerazionale è, secondo il World Economic Forum di Davos, uno dei dieci principali fattori di rischio globali. Questa emergenza silente provocherà “erosione della coesione sociale e polarizzazione sociale”, sia a breve termine (nei prossimi due anni) sia sul medio-lungo termine (entro dieci anni). Tanto nei Paesi sviluppati economicamente quanto nelle economie emergenti, infatti, i gruppi più giovani si riducono in numero mentre gli anziani rappresentano una quota sempre maggiore della popolazione.
In questo contesto, i governi non possono più rimandare le questioni relative alla sostenibilità dei loro sistemi di welfare. O, meglio: non dovrebbero. Perché guardando ai dati, viene da chiedersi se i dieci fattori di rischio del World Economic Forum siano realmente stati presi in considerazione dalle politiche dei nostri governi.
Guardiamo al nostro Paese. La situazione demografica dell’Italia è tutt’altro che rosea: i trend mostrano che, in termini numerici la popolazione che ci si aspetta nel nostro Paese nei prossimi dieci anni sarà uguale a quelle del 1951, ma opposta in composizione.Ciò vuol dire che si prevede lo stesso numero di persone abitanti in Italia (intorno ai 47 milioni), ma mentre nel 1951 erano i giovani a trainare il Paese nel dopoguerra, domani saranno invece gli over 50 la maggioranza della popolazione. Nel 2022, il numero di pensioni erogate in Italia ha superato quello degli stipendi. E l’Italia è il secondo Paese in Europa, dopo il Lussemburgo, per entità delle pensioni rispetto alla spesa pubblica generale e per reddito dei lavoratori più anziani rispetto al reddito medio nazionale.
Tutto questo, in un Paese dove “i nostri sono giovani troppo a lungo”, come scrive Alessandro Rosina in un interessante articolo su “Percorsi di secondo Welfare”: dove è difficile staccarsi dalla famiglia di origine, tra le altre cose perché, in media, a parità di carriera un trentenne guadagna il 34% in meno di un sessantenne invece di avere maggiore sostegno nelle spese importanti della vita, come un mutuo. La dipendenza dalla famiglia di origine mette in moto due importanti conseguenze che potenzialmente contribuiscono a quella erosione di cui parla il World Economic Forum: da una parte, accentua le differenze di estrazione sociale che legano un o una giovane alla famiglia di origine. Dall’altra, non favorisce la creazione di nuovi nuclei familiari autonomi, alimentando così il circolo vizioso di meno nascite e più popolazione anziana. Questo alimenta lo squilibrio intergenerazionale, dinamiche distorsive del mercato del lavoro e l’insostenibilità dei sistemi di welfare.
Eppure, in Europa esistono politiche che renderebbero tutto questo gestibile. Ci sono politiche per incentivare la creazione di nuclei familiari indipendenti: per esempio in Finlandia, dove la cura del bambino fin dalla nascita è considerata “educazione” e quindi rimessa come responsabilita’ economica allo stato. Ci sono politiche per la gestione dei sistemi di welfare: la Germania sta già applicando un approccio di collaborazione tra livello locale e nazionale che metta al centro le città, enti di prossimità che saranno in prima linea nel dover integrare questo cambiamento di composizione della propria popolazione nell’architettura dei centri abitati, nei servizi di prossimità e di cura. Ci sono, infine, politiche per la gestione delle pensioni: sia Olanda che Danimarca presentano alti livelli di sostenibilità del sistema, cosa che invece all’Italia manca in maniera visibile. Ma anche un’alta età di pensionamento (la più alta in Danimarca, a 74 anni secondo calcoli dell’Ocse), segno che la sostenibilità dei sistemi è comunque ancora un tema aperto e da affrontare in tutta l’Unione europea.
Qui in Italia, ci troviamo di fronte ad una legge di bilancio che per il 2023 prevede misure di facciata e nessuna riflessione sulla sostenibilità del sistema. Aumentano le pensioni minime a 600 euro: fa rabbrividire pensare che possa essere sufficiente a vivere dignitosamente. Al contempo, non è stata pensata alcuna revisione del sistema pensionistico che possa renderlo più resistente ai trend descritti sopra: al contrario, Quota 103 certo non ci aiuterà nel raggiungere l’obiettivo di sostenibilità. A tutto questo, si aggiungono le manovre, puramente simboliche, che sono state istituite per quanto riguarda i sostegni alle nuove famiglie e ai giovani, ma che avranno un impatto estremamente ridotto in termini pratici. Solo il 5% della legge di bilancio è infatti destinato a misure che mirano alla riduzione del divario generazionale, dalle politiche di inclusione sociale a quelle per le famiglie. Insomma, misure non solo “per i giovani”, ma che possano preparare il paese a quello stravolgimento demografico che vivrà nella prossima decade.
E finché queste misure verranno viste prettamente e meramente come “misure per i giovani”, soffriranno sempre di una limitata rappresentatività e pubblico al quale si indirizzano. Soprattutto quando, come visto, la popolazione giovane in Italia, a breve, sarà solo una minoranza. E a quel punto ci sarà poco da investire, nel futuro.