Non c’è nulla da fare: ovunque ci si giri, su qualsiasi canale ci si connetta, qualunque giornale si sfogli, l’Unione europea viene costantemente menzionata, tirata in ballo, spesso ingigantita o al contrario sminuita. Ma sempre se ne parla.
L’ultimo anno non ha certo fatto eccezione: tra le iniziali lotte all’ultima mascherina e al miglior respiratore e le recenti avventure vaccinali, passando per il Sofagate turco e le pressioni russe, l’Europa ha certo fatto parlare di sé. Non a caso, però.
L’Unione europea permea infatti quasi ogni ambito della vita dei suoi stati membri.
Mascherine e respiratori? Regole di mercato interno, che è europeo. Sono le stesse regole che ci proteggono da prodotti potenzialmente pericolosi, che ci fanno arrivare sulla tavola frutta e verdura di qualità, che ci permettono di non pagare dazi sulla cioccolata belga o sul formaggio francese.
Sofagate e Russia? Certo in misura minore, ma anche nel capitolo “politica estera” l’UE ha voce. Noi tutti, 27 stati membri, ci identifichiamo nell’Unione di fronte ad un paese terzo per stringere accordi commerciali. Accordi che si estendono ben al di là del mero scambio di merci a tariffe convenienti: l’Ue è infatti esperta nell’introdurre regole ben precise in materia di ambiente, di rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto.
L’effetto concreto può essere discutibile, ma non si può negare che questo modo di agire sia diventato un modello anche per altri Paesi, che si ispirano al modello importando i suoi standard interni e il suo modello regolatore anche sui partner esteri. Regole, regole, regole: siamo una vera e propria potenza capace di esportare regole, così tanto che si parla di “effetto Bruxelles”. Ma proprio in questo termine si condensano forza e debolezza europee.
Per capirne la fragilità, facciamo un passo indietro. O anzi, avanti: al 8 maggio, però del 1945. Il continente esce devastato da trent’anni di bombardamenti nel nome dell’ideologia e del violento nazionalismo. L’Europa necessitava di un intervento d’urgenza, e come ogni sala operatoria, i padri fondatori avevano l’anestetico giusto.
L’Unione “sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”, recita la dichiarazione Schuman del 1950, e l’UE si basa ancora su questo concetto. Ecco perché i suoi strumenti sono regolatori: la sua risposta a crisi come quella climatica o quella migratoria sono leggi e accordi. Come in ogni comunità, le regole ci servono, è innegabile.
Ma non si tratta solo di regole: urge il sentimento che sta alla base di queste. Perché abbiamo bisogno di regole di budget? Come ci fanno intendere l’Europa, le direttive sui migranti che arrivano sulle nostre coste? E come la fanno intendere agli altri attori in giro per il mondo, gli standard ambientali?
Questo step – capire il sentimento dietro la regola – lo chiediamo tutte e tutti, anche chi si professa euroscettico o si nasconde dietro ad un nazionalistico “prima gli”. E che forse proprio per questa mancanza di comune sentimento si definisce come tale: se infatti la regola non viene percepita come utile dalla sua comunità, il rischio è non solo di incomprensione e non rispetto, ma addirittura di violento rigetto.
E così, da macchina tecnocratica, l’UE è diventata terreno di scontro politico e non più solo tecnico; è diventata bersaglio di emozioni come la paura e la rabbia; genera sentimenti contrastanti, tra chi “la ama” e chi “la odia”. Non lascia più nessuna e nessuno indifferente, però non sa come gestire questi sentimenti. Perché l’8 maggio 1945, per paura che si risvegliasse durante l’intervento, la dose di anestesia fu talmente forte da non permettere all’UE di sviluppare mai strumenti differenti da quelli legislativi e giudiziari.
Cosa manca allora, a quest’Europa addormentata? Un comune volere politico. Manca la volontà di andare al di là della regola scritta sul trattato e di modificarlo – un tabù tutto europeo -, la volontà di prospettarsi qualcosa per l’Unione di domani e di non fermarsi al punto percentuale indicato sull’accordo.
Da dove nasce questa mancanza? Dal fatto che non si è potuto, finora, costruire un sentimento di europeismo. Neanche istituzionalmente: i candidati al Parlamento Europeo corrono per partiti nazionali, che fanno campagne nazionali e che parlano con elettori ed elettrici di temi nazionali.
Avere liste transnazionali non peggiorerebbe certo il livello di controllo che i cittadini possono avere sui propri eletti e le proprie elette: una volta a Strasburgo, sono tutti nella stessa arena. Invece, permetterebbe di creare uno spazio di discussione, finalmente politica, ma a livello europeo. Se i candidati al Parlamento di Strasburgo fanno campagna non solo per i propri cittadini rumeni o greci, come è giusto che sia: ma solo per parlare di temi rumeni e greci, con slogan rumeni e greci, e puntando a risultati rumeni e greci. Allora il gioco si fermerebbe, e continueremmo a cercare di risolvere problemi che generano emozioni, come i flussi migratori o le tensioni geopolitiche, con strumenti regolatori completamente slegati dalle pulsioni che esistono, inutile negarlo, nella società europea del XXI secolo.
Il giorno dopo l’8 maggio, dalla sala operatoria esce un neonato: il 9 maggio, si festeggia la giornata dell’Europa. Questo 9 maggio deve essere un punto di ripartenza. Ci sono realtà e persone che si impegnano perché lo spirito europeo sopra descritto faccia la sua apparizione sulla scena politica.E questa è la ragione perché chiunque condivida i sentimenti (appunto!), le preoccupazioni ma anche le speranze, dovrebbe avvicinarsi ad un partito transnazionale come Volt. Il progetto che ci proponiamo è estremamente ambizioso, ma punta a ciò che viene richiesto ad alta voce da tutti, letteralmente tutti, gli angoli politici nazionali: più voce in Europa per le sue cittadine e i suoi cittadini. Un’Unione Europa più democratica, in cui veramente le decisioni vengano prese da chi vota, perché finalmente votare sarebbe connesso con le azioni europee e non con i ritorni politici nazionali.
L’Unione Europa non si è fatta tutta in una volta, e continueremo a lavorarci, costantemente, per un bel po’ ancora. È un passo importante, quello che ci accingiamo a fare ora: dare anima ad un corpo robotico, che funziona bene ma a cui mancano le orecchie per ascoltare le proprie viscere, che si sentono così ignorate e si ritorcono contro il corpo stesso. Partiti ambiziosi come Volt costituiscono il futuro del progetto europeo, che non può che essere più democratico, più sostenibile, più vissuto e sentito da tutte e tutti. Anche da chi non è fan sfegatato dell’Ue.